ANALISI MORFOLOGICA GENERALE
La genetica antica distingueva in maniera dogmatica gli esseri viventi, animali o vegetali che fossero, in maschio e femmina. Alla prova dei fatti, tale discriminazione etologica non ha oggi, nell’epoca transgenica e del cibersesso, più motivo di conferma. Per una fondamentale ragione pratica: è vero che gli organismi tendono ad accoppiarsi in modo tale che dalla loro unione possa perpetuarsi migliorandosi la specie, ma è altrettanto vero che alcuni di questi rivelano dei caratteri che sembrano avere sovvertito la generale regola riproduttiva. La questione perciò si pone e non può essere contraddetta con facili argomentazioni numeriche, essendo oramai la supposta “norma” una minoranza in via di estinzione: se i maschi sono tali in quanto per lo meno predisposti al coito, da compiersi tramite l’introduzione del membro nell’organo della femmina, con lo scopo umanitario di lasciare in essa una blastula a cui dover stirare le camicie per qualche decennio; se le femmine non di meno hanno la peculiarità di accogliere in un apparato apposito assieme all’organo copulatorio anche il seme per ivi tenerlo fino a maturazione avvenuta, come definire in ambito filogenetico e con un linguaggio lamarckiano quei maschi disinibiti e simpatici che non solo si sottraggono al dovere di fecondare la femmina ma che addirittura sembrano avere una dichiarata attrazione per gli individui dello stesso sesso? Come collocare nella catena evolutiva quelle femmine che al solo pensiero di essere impalmate e fecondate vengono prese da convulsioni epigastriche, preferendo, nella naturale ricerca del piacere, le gradevoli pratiche erotiche che solo altre femmine possono dare loro? E’ evidente che una problematica determinante come questa, che mette in crisi non tanto il secolare rapporto tra i due sessi ma l’intera struttura ideologica della società, non è liquidabile con contorte e ingiustificate formule linguistiche, come “ricchione, finocchio, lesbica” e via dicendo. Soprattutto considerando che detti individui non sembrano dotati di giganteschi organi uditivi né tanto meno del lirismo saffico. Quanto al termine “finocchio” (lat. foeniculum) la filologia non si è ancora pronunciata, lasciando aperta la questione non secondaria dell’accostamento ortaggio-pederastia. Tanto che a tutt’oggi è facile cadere nell’equivoco, rischiando di vedersi imbustare dall’ortolano a cui avete chiesto un finocchio per il minestrone, il ragazzo di bottega. La scienza forse un giorno chiarirà il dilemma. Studi recenti concordano piuttosto sulla parola “culo” che, per quanto di estrazione popolare nonché ingiuriosa e volgare, sembra essere la caratteristica comune a tutta la specie omosessuale, essendo (per convenzione) la regione glutea il primario oggetto di attenzione della stessa. Questo per quanto riguarda l’omosessuale maschio. Più difficile per la femmina, non prevedendo la semantica attuale la traslitterazione in “cula”. Non per niente si dice “vai a fare in culo” e non “vai a fare in cula”. Ma gli scienziati, c’è da giurarci, troveranno presto una soluzione. Già oggi a molte donne, quando vengono infastidite da qualche imbecille, è facile sentire dire “non mi rompere le ovaie”, con chiara allusione al corrispondente maschile. E’ un fatto di uguaglianza sociale e di civiltà.